Per come la vedo io, il disegno di giardini è un’attività che ha a che fare con l’architettura, più che con l’arte; in sostanza è architettura del paesaggio. Principalmente perché ci si occupa di luoghi, di spazi, di tre e più dimensioni, di connessioni, di percorsi, tutte cose strettamente legate all’architettura che, anzi, la qualificano come tale. L’arte ha più a che vedere con l’espressione dell’uomo, con il bisogno di contemplazione. Gli spazi aperti rispondono a logiche, propongono risposte concrete, direi quasi fisiche. O forse, è sbagliato indicare categorie rigide e sarebbe meglio dire di avere una propensione: quando entro in un giardino la prima cosa che davvero mi interessa è la qualità dello spazio. Come è stato pensato, progettato, come mi viene proposto, come il mio sguardo lo possiede o, al contrario, se sfugge, è nascosto. Vedo le masse, gli alberi, le posizioni, i pieni e i vuoti. Naturalmente questa struttura è ottenuta con materiali e colori: ben diversa è una siepe fitta di tasso, con le sue piccole foglie nere che assorbono tutta la luce, e una di alloro, foglia media, coriacea, appena lucida, massa meno compatta, oppure carpino, fresca, verde, brillante, morbida. Lo stesso discorso si applica a tutto: alberi singoli, in coppia, in sequenza, lontani e visibili solo in tralice, alti, antichi, spoglianti, sempreverdi, esausti dall’uso di un’epoca. Tutti questi dati convergono a creare un’impressione di spazio, in un attimo. Poi non a tutti interessa fare il percorso inverso di lettura puntuale delle intenzioni di progetto, di dove ci sta portando e se riesce a farlo fino in fondo. Personalmente, solo dopo mi soffermo sulla singola pianta, pur intuendone nell’immediato la scelta – magari anche sbagliando, ma non è un problema. Evito di levare la singola pianta dal contesto, quando è usata nel progetto, altrimenti mi salta tutta la geometria e l’arte mi squaderna ogni cosa. Perché la singola pianta mi confonde e nel moto empatico perdo i confini io stessa.
Ma le mie elucubrazioni poco importano; è già da un po’ che ho letto il libro di Ettore Sottsass Scritto di notte e mi torna utile riportare qui alcune parti.
A dire la verità la parola arte, usata e strausata, non mi piace per niente. Sa troppo di Ottocento, e ormai serve soltanto per spiegarsi in fretta, per dire che c’è l’arte dovunque, come la creatività che c’è dovunque. Anche nel disegno della mutande, dell’intimo c’è la creatività, cioè l’arte. Io penso che la parola arte, cioè l’arte, bella parola come lo zucchero da mettere su tutto quello che è amaro, riguardi soltanto la pittura e la scultura, oggetti che si vendono nelle gallerie o nelle aste, mentre esclude l’architettura e le cosiddette arti decorative o arti minori che sarebbero i tappeti, i mobili, le ceramiche, i gioielli e tutte queste cose, appunto, minori.
Ad ogni modo ho sempre pensato che l’architettura non è altro che il disegno di un posto artificiale che “si abita”. Un posto che si abita con il proprio corpo e con la propria anima, sudati o raffreddati, sanguinanti o con la pelle bella lucida, impauriti o speranzosi, contenti o piangenti.
Invece ho sempre pensato che la pittura e la scultura “si guardano” e il nostro fragile corpo e la nostra fragile anima possono essere toccati ma stanno più o meno lontani, prendono le distanze. Io finisco lontano da me stesso, mi fermo, quasi sto un po’ male. Quando trovo l’arte sono trascinato lontano da me, mi polverizzo in molecole sconosciute, finisco in uno spazio misterioso al di là di tutto.
Ho sempre pensato che l’architettura sia meglio chiamarla con il suo nome: architettura e non arte, come la musica si chiama musica e la poesia si chiama poesia. Mi piacerebbe che anche l’ingegneria si chiamasse ingegneria e non, come si usa spesso, architettura. Ho sempre pensato che a vivere nell’architettura “io” sono sempre presente, mi porto sempre dietro, non mi dimentico mai di me stesso, non svengo, la mia vita continua; anche se piango, piango con l’acqua delle mie lacrime. Mi piacerebbe che anche il disegno delle mutande si chiamasse disegno delle mutande e non arte.
Ho sempre pensato che sia meglio usare le parole giuste, così si sa meglio che cosa si sta facendo; anche parlando e anche scrivendo.
Scritto di notte è un libro particolare perché nasce quasi alla fine – è uscito nel 2001 – di una vita lunga (1917-2007) e densa di avventure sia personali che collettive, di un uomo che non si è negato, che è stato generoso. In un’altra parte del libro – in molte parti, per la verità, essendo una narrazione con una cronologia inconsueta – parla del linguaggio dell’architettura e della necessità di liberarlo, di combattere gli automatismi. Credo sia utile anche per chi si occupa di giardini cercare una nuova via espressiva, al di là della solita aneddotica trita.
Continuavo a essere un architetto e la ragione di tutte quelle mie agitazioni finiva sempre per nutrire il mio disegno di un possibile nuovo modo di essere dell’architettura. Vivevo nelle frange residue di un pensiero vasto che già c’era stato: il pensiero con il quale si tentava di liberare l’architettura, e anche la pittura, dalle croste che chiamavo letterarie; si tentava di cancellare l’architettura e la pittura dai simboli di casta, da rappresentazioni cartolina, da supporti narrativi, da giustificazioni più o meno nascoste nel destino dei vari poteri. Si trattava di provare fin dove poteva arrivare una poetica solitaria, se poteva possedere linfa in se stessa. Provare fin dove aveva spazi intorno per muoversi; fin dove poteva rispondere alla continua domanda, alle continue instabili domande in perenne nomadismo.
Quelli che ci stavano provando, quelli che ci hanno provato, quelli che hanno capito che stavano cambiando le domande e che stavano arrivando nuovi pensieri, nuove necessità e che era il momento di prendere le distanze dalle vecchie “scale di valori”, come si chiamano oggi, erano personaggi strani.
Anch’io, mio malgrado, ero in continuo movimento, anch’io, mio malgrado, volevo sapere tutto, conoscere tutto, provare tutto.